Sostenibilità, ma solo a parole!

Prendo spunto da un documento dell’OCSE che il direttore va ampiamente ad approfondire per parlare di un tema a me caro: la sostenibilità. Nell’articolo che pubblichiamo sul nostro sito v’è il riferimento ad una lettura del tema che trovo in linea con le mie intuizioni: sulla sostenibilità si sta facendo poco, per svariate ragioni. Eppure sul Sole 24 Ore divulga una tendenza delle imprese del SUD ad investire (nel Meridione lo fa il 43% delle aziende contro la media nazionale ferma al 40%), soprattutto in innovazione e digitalizzazione. Provocavo nel mio precedente editoriale che forse il Mezzogiorno non lo si vuole rendere competitivo e perciò noi meridionali facciamo ciò che sappiamo fare benissimo: cavarcela da soli. Purtroppo però noto che il tema sostenibilità è perseguito con due visioni (sbagliate): o lo si percepisce come un freno alla crescita aziendale per i troppi cavilli e procedure, cosa verissima che anche l’OCSE stigmatizza; mentre dall’altra viene vista come un ottimo specchietto per le allodole per i consumatori. In quest’ultimo caso parliamo di greenwashing, ovvero di (ri)pulirsi l’immagine dalle cattive prassi per poi lavarsi la coscienza aggiungerei io! Un peccato, davvero un peccato. Perché l’approccio “green” è qualcosa di più, di molto di più, di una semplice narrazione da elaborare di concerto con l’ufficio marketing. E chi scrive è colui che per primo ha avuto la sensibilità di percepire un cambiamento, prima di pensarlo. Quando inventai in Coldiretti il premio Oscar Green lo feci con una suggestione: fare in modo che delle buone pratiche potessero ispirare un cambiamento nel modo di pensare l’agricoltura, chiaramente per poi praticarla. Invece, come ogni cosa, il cambiamento ci è stato dovuto imporre sottoforma di paletti, schemi, protocolli, procedure e processi. Abbiamo fatto in modo che la sostenibilità venisse regolamentata da chi l’agricoltura non l’ha mai fatta. Non condivido il modo di bollare Timmermans uscito di recente in una famosa trasmissione della rete nazionale né l’etichetta di nemico numero uno; però è condivisibile l’avversione degli operatori verso un certo modo di fare che ha molto di estremista. E si sa: il fanatismo non porta mai a nulla di buono. Atteggiamento ideologico senza basi scientifiche si spera venga superato con il suo avvicendamento. Però resta il fatto sostanziale che abbiamo perso l’occasione di governare il cambiamento per subirlo. La sostenibilità, vuoi o non vuoi, doveva arrivarci in casa come priorità da affrontare. Invece abbiamo lasciato la palla agli altri “tanto è in Europa che si deciderà tutto”. Io credo, invece, che il cambiamento poteva partire dal basso, ovvero da chi lo vive sulla propria pelle. Però continuiamo a dare i premi e la cosa mi fa piacere, significa che l’idea era buona. E come diceva uno più colto di me, se l’idea è vincente cammina con altre gambe che non sono le tue per poi attraversare la storia. Ma resta il rammarico che la storia poteva essere scritta in modo diverso. Soprattutto con protagonisti diverse senza lasciarci, oggi, a recitare il ruolo di comparsa.

Editoriale a cura di Donato Fanelli