Sentenza breeders

Liberi da chi e, soprattutto, liberi da cosa?

Editoriale a cura di Donato Fanelli

In medio stat virtus. Lo dicevano i filosofi!
Ma tant’è, in questa sede, e in questo momento, serve essere pragmatici per dare una narrazione non equivoca agli operatori della filiera dell’uva da tavola. Questo lo dico in riferimento alla ormai arcinota sentenza che ha visto trionfare in sede di Cassazione un imprenditore agricolo in opposizione ad uno dei colossi del breeding.
La mia provocazione, alla fine mira a ribadire la necessità di avere equilibrio. Già, equilibrio. Perchè questa sentenza per molti rappresenta uno spartiacque, una sorta di liberi tutti per alcuni (fortunatamente pochi). Come ben spiegano sia il mio collega Del Core nella sua intervista, basandosi su un parere elaborato dall’avv. Acquafredda: “il frutto pendente prodotto da materiale vegetale oggetto di privativa, legalmente piantato e propagato, non è soggetto ad alcun vincolo nella vendita e distribuzione, e dunque il produttore legalmente licenziato dal breeder a piantare e produrre una cultivar sotto licenza può vendere il prodotto liberamente. Va precisato però che ciò può avvenire purchè in fase di vendita e collocamento sul mercato non sia utilizzato il marchio commerciale collegato alla varietà, in quanto protetto da un ulteriore brevetto, e quindi concesso in licenza di uso legittimamente solo ad alcuni operatori. Il disposto scaturisce dal fatto che il diritto alla tutela della privativa vegetale segue solo il materiale di propagazione e si esaurisce al momento in cui la pianta viene concessa in licenza in produzione, non estendendosi anche al frutto che da quella pianta deriva”. E lo stesso Avv. Acquafredda ci chiarisce: “La Corte di Cassazione è arrivata al punto di ritenere nulla per contrarietà all’ordine pubblico ogni pattuizione contrattuale con cui il breeder imporrebbe al produttore di vendere la propria produzione di frutti della varietà protetta ad un pre-determinato distributore (marketer). Tuttavia non mi pare che nel caso portato all’attenzione della Cassazione sia stato opportunamente messo in risalto il valore aggiunto che per l’intera filiera (proprio a partire dal produttore) può avere la “formula Club”, che per questo non va demonizzata. È infatti riduttivo sostenere che gli interessi dei produttori vengano frustrati per il sol fatto di essere tenuti a conferire la propria produzione ad un distributore scelto tra quelli autorizzati dal breeder. A tal riguardo va precisato che solitamente quello selezionato dal produttore non è un distributore qualunque, ma un vero e proprio licenziatario del breeder, tenuto a commercializzare una produzione di qualità elevata con un determinato marchio commerciale. La formula Club è quindi tipicamente una modalità con cui il breeder cerca di garantire a beneficio dell’intera filiera una modalità selettiva di distribuzione del prodotto con la finalità di far affermare sul mercato una varietà come “premium”, assicurando al consumatore finale un alto standard qualitativo, garantendo il ritorno economico per il produttore e così salvaguardando proprio quella produzione agricola su cui la Cassazione ha basato la sua decisione”.
La seconda sottolineatura riguarda quindi le potenzialità dei Club di prodotto. Molto spesso (finalmente direi) nei nostri incontri si parla di un approccio consumer-oriented alla produzione: prima di produrre devo sapere a quale consumatore mi rivolgo, quali gusti e preferenze ha, che tipo di dinamica e frequenza di consumo c’è. Bene! Però è importante anche a chi vendo, com’è organizzata la filiera, non solo commercialmente, ma anche in termini di promozione e divulgazione delle peculiarità del prodotto, cui ancorare la comunicazione e le politiche di prezzo. Su questo va richiamata la responsabilità dei Club che devono prendersi in carico questa prerogativa, ovvero quella di coordinare azioni verso l’esterno che rafforzino l’identità di prodotto e creino fidelizzazione verso i consumatori. Il futuro lo costruisce solo una filiera coesa tra i diversi anelli, solida economicamente per fare investimenti in sviluppo e ricerca. Una filiera che assomigli ad un Eco-Sistema, lo chiamo io, ben strutturato ma flessibile per adattarsi al mercato. Perchè qui non si tratta di applicare le solite dinamiche nostrane dell’andare per campanili a spuntare il centesimo in più. Non applichiamo alle nuove dinamiche di mercato le nostre vecchie (e malsane abitudini). E diciamocelo tra i denti: senza i breeders la nostra filiera sarebbe morta e sepolta vent’anni fa. Questo non lo dimentichi nessuno. E chiudo auspicando davvero che l’equilibrio ci faccia capire come guerre intestine non servono a nessuno. In un’epoca contrassegnata dal ritorno prepotente di morti e catastrofi, non possiamo sprecare ulteriore tempo nel creare ulteriori blocchi e divisioni

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