Metà della Terra abitabile è usata per l'agricoltura: ecco perché il Green Deal non funzionerà senza riformarla

Metà della Terra abitabile è usata per l’agricoltura: ecco perché il Green Deal non funzionerà senza riformarla

La settimana scorsa, il francese Pascal Canfin, presidente della commissione Ambiente del Parlamento europeo, ha chiesto e ottenuto dall’assemblea che venisse presa una posizione comune sulla cosiddetta “biodiversità”, in vista della conferenza Cop15 che l’Onu ha organizzato a Kunming (in Cina) dal 19 ottobre all’1 novembre prossimi.

Secondo l’Europarlamento, per arrestare l’attuale tendenza alla perdita a livello mondiale di biodiversità (o diversità biologica, definita come la varietà di organismi viventi in diversi ecosistemi), la Cop15 dovrebbe portare a un accordo su obiettivi vincolanti e con scadenze precise, anche con “indicatori di prestazione” per capire come ogni Paese stia (o non stia) rispettando gli impegni eventualmente presi.

In particolare, in vista del 2030, l’Unione europea vorrebbe avere un ruolo centrale, ottenendo che:

– almeno il 30% del territorio comunitario sia costituito da aree naturali;
– venga ripristinato almeno il 30% degli ecosistemi danneggiati;
– venga integrata la biodiversità in tutte le politiche, istituendo un obiettivo di spesa nel bilancio 2021-2027 del 10% minimo.

Da parte sua, Canfin ha appunto sottolineato che «i punti cruciali per il Parlamento Ue saranno la definizione di obiettivi europei e globali per la biodiversità, che dovrebbero includere una migliore protezione degli ecosistemi naturali, la riduzione dell’uso di pesticidi in Europa e la sostenibilità del settore agricolo e della pesca», ricordando che «il 2020 sarà un anno fondamentale per la biodiversità, con il meeting dell’Iucn (l’ong Unione internazionale per la Conservazione della Natura) a giugno a Marsiglia e la Cop15 a ottobre in Cina».

Metà del mondo abitabile è usato per l’agricoltura
Già, il settore agricolo: perché la sua influenza è così importante sull’ambiente e perché riformarlo sarebbe fondamentale per ridurre gli effetti del cambiamento climatico, anche nell’ottica del cosiddetto New Green Deal, di cui tanto si parla sia negli Stati Uniti sia in Europa? Non solo perché i campi coltivati sono fra i principali responsabili della deforestazione (con drammatici effetti sul cosiddetto “ciclo dell’acqua”) e perché, insieme con gli allevamenti di animali per la produzione di cibo sono la terza (o più probabilmente la seconda) fonte d’inquinamento della Terra. Soprattutto, perché sulla Terra occupano un sacco di spazio.

Alla fine del 2019, il sito Our world in Data ha pubblicato su questo un’analisi firmata dalla ricercatrice inglese Hannah Ritchie, laureata in Geoscienze all’Università di Edimburgo. Raccoglie dati più o meno noti (soprattutto raccolti dall’Onu e dalla Fao), ed è passata piuttosto inosservata, ma le conclusioni sono abbastanza impressionanti: la metà esatta della parte abitabile del nostro pianeta (dunque, esclusi mari, ghiacciai, deserti e altre aree sterili e inospitali) è destinata all’agricoltura. In numeri assoluti, si tratta di 51 milioni di chilometri quadrati: per capire quanti siano, è utile sapere che tutti gli insediamenti umani, quelli piccoli e quelli grandi, comprese le megalopoli come Città del Messico e Los Angeles con il suo “sprawl”, tutti insieme, occupano 1,5 milioni di chilometri quadrati. Trentaquattro volte in meno.

L’analisi della Ritchie va ancora più a fondo, aiutata da un grafico “a imbuto” (visibile qui sopra) che ne facilita la comprensione: di questi 51 milioni di chilometri quadrati, la stragrande maggioranza (40 milioni, il 77%) è usata per allevare animali e per coltivare alimenti per loro; solo il 23% del terreno destinato all’agricoltura produce cibo per le persone. Insomma, nonostante che gran parte dei terreni agricoli siano sfruttati per carne, latte e simili, per noi umani tutto questo si traduce alla fine solo nel 18% e nel 37% delle calorie e delle proteine che assimiliamo (la fonte, in questo caso, è un articolo pubblicato su Science). E il resto? Il resto è di derivazione vegetale.

Un disastro per la biodiversità
Come si vede, c’è un vistoso sbilanciamento costi-benefici, fra lo spazio dedicato all’agricoltura (il costo, in questo caso, è ambientale) e i “benefici” che le persone ne ricavano dal punto di vista alimentare. E questo riporta il discorso alla biodiversità e all’importanza della sua tutela, come sottolineato appunto anche dal Parlamento europeo: secondo gli analisti dell’Iucn, più o meno negli ultimi 1000 anni è stata proprio l’agricoltura (e la sua espansione) l’attività umana ad avere avuto il più grande impatto dal punto di vista ecologico sulle condizioni della Terra, tanto che delle 28mila specie considerate “a rischio estinzione”, quasi 24mila lo sarebbero proprio per colpa delle coltivazioni.

La soluzione per invertire la rotta? Secondo Hannah Ritchie (ma non solo secondo lei), in futuro sarà necessario ridurre la domande di carne, latte e altri derivati animali, così da portare a una riduzione dell’offerta (e dunque della produzione, e dunque dell’uso di terreni a questo scopo).

Nel frattempo, una possibilità è quella di provare ad applicare le tecniche di “agricoltura sintropica” ideate dallo svizzero Ernst Götsch, che ha incominciato a usarle soprattutto in Brasile. E, “a cascata”, pure a San Salvatore Monferrato, come la scorsa estate ci raccontò l’imprenditore genovese Pier Giovanni Capellino, fondatore della Almo Nature, che produce alimenti per cani e gatti: «Abbiamo acquistato terreni per circa 17 ettari che erano coltivati con tecniche di agricoltura intensiva. Per la prima volta, con il sostegno del dipartimento di Scienze dell’agricoltura dell’Università di Milano e in collaborazione con il Cnr, applicheremo le teorie di produzione di Gotsch. Bisogna restituire al Pianeta quello che abbiamo preso». Prima che sia troppo tardi, anche…

 

Autore: Emanuele Capone

Fonte: Il Secolo XIX

 

 

 

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