La rivolta è la lingua di chi non viene ascoltato

La rivolta è la lingua di chi non viene ascoltato. E ciò che in questi giorni sta vivendo il mondo agricolo è il risultato di anni di polvere sotto il tappeto! Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e mi riferisco a chi ancora oggi dopo tutto ciò che sta avvenendo continua a dirci che a San Valentino 1 innamorato su 3 sceglie un fiore italiano e fra poco avvicinandoci a Pasqua siamo pronti a sapere quanti agnelli verranno mangiati in quanti minuti ed in quanti agriturismi, per la serie il lupo perde il pelo ma non il vizio!

 E torno sull’argomento perché a mio avviso è qui il nocciolo della questione: non si poteva e doveva andare avanti per anni alla “volemose bene”, perché i nodi prima o poi vengono al pettine. E di problemi in agricoltura ce n’erano e ce ne sono troppi. Ma la criticità non sta solo nella PAC, bensì in tutta l’impalcatura delle politiche agricole. Certo la PAC, così come è stata concepita è pura follia però, di fatto, il sistema in tutta la sua sproporzione non è stato costruito oggi: anche se il 95% delle aziende agricole europee sono a conduzione familiare, i ¾ dei fondi vanno alle grandi imprese; se l’83% riceve il 23% dei finanziamenti (non oltre 5mila euro a testa)  Abbiamo un problema se lo 0,03% delle aziende ha ricevuto il 14% dei finanziamenti, per una cifra tra i 250mila e i 300mila a testa. Avete capito?? Tant’è! E la cosa bella è che si sapeva! Perché la storia dell’aggregazione, delle OP, non è nata mica oggi. Oggi, forse, siamo più consapevoli della direzione in cui le politiche agricole stavano andando, o meglio: c’è una consapevolezza generale, mentre prima solo chi viveva tra filari e gli alberi lo sapeva. Il problema della frammentazione, il problema delle varietà antiche, il problema della conformazione dei terreni che non agevola la meccanizzazione. Ed ora escono fuori anche le indagini, come quella condotta da Agri2000 Net, società di servizi in agricoltura emiliana che mette nero su bianco il fatto che una azienda su due in sarà costretta a chiudere per il problema del passaggio generazionale:  i dati raccolti con un campione di 1.600 aziende agricole del territorio dell’Emilia, una delle zone a maggiore produzione agricola in Italia, evidenziano come quasi il 75% degli imprenditori agricoli sopra i 50 anni non abbiano ancora trovato un successore a cui affidare l’attività. Il 50% degli intervistati over 50 ha dichiarato che probabilmente la propria azienda nel futuro sarà venduta, mentre il 40% sarà affittato.

Ora, quindi, è tutto un problema…ieri, invece, non c’erano? Ma voglio dire le cose come stanno anche ai miei colleghi: ora tutti “scaricano” la colpa sulle organizzazioni, vero capro espiatorio. Però come diceva De Andrè: “nessuno si senta assolto, siamo tutti coinvolti!”. Certo perché fino e ieri ognuno si è preoccupato del proprio orticello.

Le organizzazioni agricole nel frattempo sono cambiate perché chi difendeva i diritti  ha iniziato   creare centri di servizi, consorzi, organizzazioni di produttori, mercati agricoli, intermediazione commerciale ed export management, finanche banche ed assicurazioni. E noi lo sapevamo. Però fino a quando il sistema reggeva ed ognuno aveva il centesimo in più rispetto al commerciante, tra mille mal di pancia ha continuato a seguire la massa. Senza spirito critico, senza la minima opposizione interna ai diversi consigli o assemblee anche della più piccola cooperativa. Tuttavia questo dissenso, scaturito in questa forma, ha posto al centro dell’attenzione il problema del costo e della sproporzione del valore riconosciuto tra i diversi anelli della filiera. Ripartiamo da qui. Questo deve essere il centro del dibattito e non chi ha l’onore di intestarsi una minima conquista come può essere quella dell’Irpef in Italia e del blocco della direttiva sui fitofarmaci in Europa! Purtroppo gli atteggiamenti infantili tra gli attori in campo, siano essi politici o rappresentanti sindacali, ci fa capire come nulla sia cambiato. Anzi, si profila sullo sfondo la nascita dell’ennesima sigla. Forse mi sbaglio, ma sembra un deja vù visto in politica: il dissenso fagocitato dal sistema, dalla tecnostruttura per cui è nato quel dissenso. Ripeto, voglio sbagliarmi, ma sembra il solito finale italiano a tarallucci e vino. Finchè i taralli son buoni e il vino c’è, di chiacchiere se ne possono dire, ma attenzione perché anche il vino sta per finire.

Editoriale a cura di Donato Fanelli

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