C’era una volta l’olivicoltura italiana

Che ne sarà del fiore all’occhiello della dieta mediterranea nel nostro paese? Sono in molti a chiederselo, ma in pochi sono così audaci nell’affrettarsi a trovare una risposta che può assestare un colpo doloroso ai porta vessillo del Made in Italy (da difendere a tutti i costi). Ai sovranisti alimentari bisognerebbe ricordare che l’olivicoltura italiana è morta da un decennio e se fosse vivo il prof. Fontanazza forse potremmo avere un valido interlocutore in colui che cercò di caldeggiare ai vari ministri succedutisi ed alle principali organizzazioni il suo Piano per l’olivicoltura che fece la fortuna degli spagnoli. Forse vale la pena rimembrare il modo in cui la Spagna pianificò il “sorpasso” ai danni dell’olivicoltura tricolore colpendola nei suoi punti deboli ed approfittando della miopia della classe dirigente dell’epoca. 

Fontanazza, già direttore dell’Istituto di ricerche sulla olivicoltura (Cnr-Iro) di Perugia, si adoperò moltissimo per innovare l’olivicoltura italiana, introducendo nuove cultivar, tra le quali la notissima Fs17, altrimenti conosciuta come Favolosa, che si è scoperto essere resistente alla Xylella, o per esempio la Don Carlo.

Il professore riuscì a fare fuori dall’Italia ciò che voleva fare in Italia. Sul finire degli anni ’80 in Spagna intrapresero una drastica politica andando ad estirpare uliveti poco produttivi o per nulla produttivi con impianti a medio intensità e poi alta intensità ed innovando il processo produttivo con la meccanizzazione. E mentre l’Italia si beava della sua frammentazione fondiaria lì si puntò sull’aggregazione, ma anche sulla concentrazione cercando le performance economiche piuttosto che gli equilibri geopolitici. E fu attraverso questo rifiuto della politica che il mercato potè aiutare la politica inducendo uno sviluppo economico e sociale in territori arretrati o semi-arretrati come l’Andalusia ed Extramadura. 

Bella e calzante diventa quindi la perifrasi del giornalista del Sole 24 Ore Giorgio dell’Orefice che a febbraio, commentando i dati Nomisma, parlava dell’extravergine di cittadinanza, un fenomeno più sociale che di mercato, ancora fermo all’hobbismo degli anni ’80. Già, perché l’olivicoltura se negli anni ’80 era fatta da doppio-lavoristi, ancora oggi non rientra in una dinamica propriamente imprenditoriale per la maggior parte dei titolari di terreni. Basti pensare che le aziende che producono frutta sono 330 mila, 325 quelle di cereali e 255 le aziende che producono vino. Quelle dedite alla coltivazione di olive sono 619mila e ciononostante si è passati dal produrre 500mila tonnellate (2010) alle 300mila della passata annata (ma abbiamo arrotondato il dato per abbondanza, molta abbondanza!). La crisi è colpa della frammentazione? In larga parte sì: il 42% delle aziende italiane ha meno di due ettari di uliveto, il che significa che poco meno della metà delle aziende olivicole si dedica a una produzione hobbistica o destinata al solo autoconsumo. Solo il 2,5% delle imprese italiane, infatti, ha più di 50 ettari contro il 7,5% della Spagna. E chiaramente essendo una dinamica più sociale che economica il settore arretra per mancanza di investimenti: tra il 2011 e il 2021 le superfici a oliveto sono aumentate del 41,6% in Cile, del 39,5% in Argentina, del 22,6% in Marocco, dell’11,4% in Turchia, del 10,9% in Portogallo, del 5,4% in Spagna (quindi crescono anche in quello che è già abbondantemente il leader produttivo mondiale), persino dello 0,4% in Francia mentre le superfici a uliveto calano del 3,5% in Italia. Numeri confermati anche dalle cifre sul commercio mondiale di olio d’oliva. Tra il 2011 e il 2021, l’export della Turchia è aumentato dell’16,4%, quello del Portogallo del 14,8%, della Tunisia del 9,8%, del Cile del 9,7%, della Francia dell’8,2%. Rispetto a una media del commercio mondiale cresciuto in dieci anni del 6,2% quello made in Italy è aumentato solo del 3%. In queste condizioni tra non molti anni l’Italia resterà un player marginale e verrà superata da nuovi e vecchi protagonisti del settore oleario.

Editoriale a cura del direttore, Rocco Devito

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