Un Macfrut da sogno per una filiera ortofrutticola da incubo

Come dice il detto: “Il pesce si butta e i gatti muoiono di fame!!”. Leggendo i numeri che vedo rincorrersi dichiarazioni e comunicati che parlano del successo del MACFRUT, la cosiddetta “fiera della filiera ortofrutticola”, una domanda mi sorge spontanea: bastano 50mila ingressi e il doppio degli espositori per annunciare che una fiera sia riuscita? E consentitemi di chiedere: riuscita in che cosa? Quali erano gli obiettivi che si intendeva raggiungere? La presenza di qualcuno, siano espositori, buyer o semplici visitatori non rende giustizia al concetto di “successo”.

Si è vero: Macfrut è stata un’occasione per ritrovarsi, per tornare a scambiarsi in presenza idee, visioni e suggestioni. E’ stata un buon modo per condividere ed a volte anche pianificare azioni comuni (da coordinatore del gruppo di contatto dell’Uva da tavola sono stato protagonista di un produttivo briefing con i colleghi spagnoli e francesi con i quali abbiamo attenzionato i temi nevralgici della filiera e programmato un’azione comune nei confronti della Commissione Europea).

Ma ciò basta? Una fiera dovrebbe a mio modesto avviso fungere da momento di effervescenza del settore, dovrebbe innescare momenti di dialogo tra gli anelli, dovrebbe creare polemica costruttiva e, soprattutto, cambiamenti.

Ciò è alla base dell’evoluzione: cambiamenti innescano adattamenti. Invece la narrazione che emerge (o la meta-narrazione perchè a dire il vero noi ce la suoniamo e noi ce la cantiamo) è che vada tutto bene: l’ortofrutta italiana è in salute, i numeri dicono che è performante soprattutto all’estero e che è capace di stare al passo coi tempi, anche in termini di innovazione tecnologica (su quella varietale c’è l’eterno work in progress).

Nei giorni scorsi sorridevo nel seguire un video sui social (Guarda il video) di un operatore che affermava “Se nell’ortofrutta va tutto bene, significa che il denaro circola, però questo denaro noi non lo vediamo perchè si ferma sopra la nostra testa”.

Una immagine cara a uno mio collega che spesso asserisce che noi operatori rincorriamo una carota che ci viene sventolata sopra la testa per spingerci a correre, ma la tanto agognata carota per noi è irraggiungibile. Tuttavia il fatto è che la carota c’è. Esiste. E io di questa carota voglio parlare: la filiera ortofrutticola genera valore, crea surplus. Ma questo surplus dov’è? Dove rimane?

E’ questo il nocciolo della questione ed io su questi numeri vorrei ragionare. Perchè sui dati e sulle proiezioni gli operatori basano la propria esistenza imprenditoriale. E i trend, dal lato produttivo non sono buoni: i consumi calano e non solo per l’inflazione.

Le abitudini alimentari stanno cambiando e l’Europa che fa: parla di vietare imballaggi sotto il chilo e mezzo. Questo significa che c’è un divario netto, un solco tra chi fa le leggi, pianifica il futuro e decide le sorti di un comparto e chi invece quel comparto lo porta avanti. C’è incomunicabilità, non c’è ascolto, non c’è vera concertazione. Anche le istanze dei produttori che chiedono una regolamentazione seria del mercato dell’innovazione varietale sono rimaste inascoltate.

E non è l’unico cul-de-sac in cui la filiera è finita. Ci vengono vietati prodotti, senza darci una valida sostituzione di principi attivi. Rimaniamo al palo coi nostri dossier per entrare in nuovi Paesi, mentre importiamo prodotti che vengono trattati con sostanze bandite in Europa dagli anni ‘80.

Si chiede alle aziende di lavorazione di pensare un modo inedito, eco-compatibile negli imballaggi per poi sostituire la plastica (che ha un alto tasso di riuso) con il cartone (che non può essere riutilizzato), come è avvenuto in Francia. Ma di tutto questo si è dibattuto in modo leggero, quasi automatico, per la serie lo dobbiamo dire perchè lo dobbiamo dire. Ma tranquilli, perchè va tutto bene. D’altronde i dati lo dimostrano! I fatti no!

Editoriale a cura di Donato Fanalli

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