Per difendere la filiera zootecnica italiana serve più di una firma
La querelle me la immagino così, come in uno spot con la super famosa star hollywoodiana che esordisce chiedendo, con un sorriso maliziso: “Cibo sintetico?” e la massaia che gli risponde piccata: “No grazie, mi tengo il mio petto di pollo!”.
Certo è che la battaglia portata avanti da Coldiretti, sta assumendo contorni ironici, nel mondiale del Qatar non avendo la nazionale sugli schermi dei televisori dei bar e delle case addobbate a festa, l’unico modo per stringerci attorno all’elmo di Scipio sembra quello di serrare i ranghi contro la fake meat. E con al Governo l’esecutivo più sovranista dal dopoguerra ad oggi, era facile prevederne gli esiti. Ma, in realtà, gli applausi all’iniziativa sono bipartisan, col PD che ha definito una priorità un disegno di legge volto a bloccarne da subito il percorso in Europa. Ma, come sempre, vado a rompere le uova nel paniere…quelle vere, non sintetiche.
In molti motivano il “niet” alla carne prodotta in laboratorio con la difesa del Made in Italy e della nostra filiera zootecnica. Una asserzione vera in parte.
La scienza ha il dovere, intrinseco, di vagliare alternative per affrontare problemi contingenti: la popolazione mondiale è cresciuta oltremodo, le risorse naturali sono insufficienti, il clima è ormai cambiato irrimediabilmente varcando il punto di non ritorno. Sono tutti aspetti che vanno presi in considerazione.
La scienza, insomma fa la scienza e lo fa con i suoi modi, le sue procedure. E se qualcuno obietta sulla sua a-moralità, forse non sa che la pasta che mangia è prodotta con grano geneticamente modificato. E non parlo dei famosi OGM, parlo di varietà che furono costruite in laboratorio nel primo dopoguerra e che prima non esistevano in natura. La questione sta in altro, ovvero quando le multinazionali iniziano a fare propaganda (e non marketing, quello serio) affermando che la filiera della carne prodotta in vitro è più sostenibile, non fa soffrire gli animali ed ha un minor impatto ambientale per ciò che inerisce lo sfruttamento delle risorse naturali (acqua su tutte).
Beh, su queste questioni le cose stanno un po’ diversamente e sicuramente di svantaggi ce ne sono a iosa, così come per la filiera zootecnica “tradizionale”, il cui impatto ambientale è innegabile.
Ma la domanda da farsi è: cosa veramente mangeremmo? Il gusto ed il sapore sarebbero paragonabili, anche lontanamente? Che ne sarebbe del retaggio enogastronomico tipico del mondo rurale? Come cambierebbe il paesaggio agreste? Interrogativi ai quali oggi nessuno può rispondere senza prese di posizione a priori. Però su una cosa voglio dibattere e lo faccio con chi sostiene a spada tratta la nostra filiera: cosa si è fatto per valorizzare le produzioni zootecniche italiane? Quali percorsi sono stati immaginati per accompagnare il comparto in questa complessa e complicata fase di transizione green? Quali sono le politiche a supporto della filiera? E, soprattutto, potrei conoscere il Piano Strategico di Settore, magari declinato su un range temporale a medio-lungo termine? Modificando, a mia esigenza un detto tutto meridionale: le firme se le porta il vento.
Qua la battaglia vera la nostra zootecnia non la fa con un fondo di investimento che sta investendo (scusate il gioco di parole, ma è essenziale) nella ricerca e nella sperimentazione (lo potrà pur fare!); bensì si gioca sul potenziamento della competitività, con leggi nazionali e regionali che facciano rispettare le norme sulle pratiche sleali o che facciano seguitare gli accordi presi nei diversi tavoli con le imprese di trasformazione (e penso alla filiera lattiero-casearia, laddove gli impegni presi da caseifici difficilmente vengono portati avanti senza l’intervento della politica).
Guardando da fuori la situazione, rimango basito. Mentre si gioca a fare gli spot, c’è un comparto (l’ennesimo) che non sa come uscirsene da una situazione che è simile ad un pantano tra mangimi che non arrivano o se arrivano lo fanno a costi esorbitanti; prezzi energetici alle stelle; mercati bloccati da guerre o dazi. E una cosa la voglio dire anche ai sovranisti alimentari. Sono allineato al presidente Confagricoltura quando, giustamente, precisa che il sovranismo alimentare non è auto-mercato, bensì è regolamentazione dei processi di approvvigionamento, potenziamento della trasparenza da parte dell’agroindustria nella scelta delle produzioni che poi vanno sotto l’egida del Made in Italy, è giusta remunerazione agli agricoltori, è sicurezza alimentare, è applicazione delle leggi europee anche a chi esporta nel nostro paese.
Beh, sotto questo punto di vista stiamo molto indietro nel perseguimento degli obiettivi da raggiungere. Considerando che il baluardo dell’autosufficienza è pura fantasia. L’Italia è autosufficiente (ovvero dispone delle materie prime necessarie per far fronte al proprio fabbisogno interno e alle esportazioni) soltanto per riso, pollo e probabilmente ortofrutta. Importiamo il 40% di grano, il 60% di olio, le farine (45%), i prodotti da forno (28%), le conserve ittiche (95%), le carni preparate e i salumi (40%) e prodotti per l’alimentazione animale (proviene da oltre confine il 65% dei mangimi). E’ totalmente dipendente dall’estero per il caffè e il cioccolato, con uno dei brand storici salvato (è il caso di dirlo) da uno dei tanti fondi di investimento di una banca internazionale. Partiamo da questo. Partiamo dai dati, gli unici fatti inoppugnabili. Per gli autografi c’è sempre tempo.
Editoriale A cura di Donato Fanelli