L’impresa agricola può fallire? SECONDA PARTE

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Nel contesto agricolo, dove la crisi assume a volte i contorni di una lenta agonia finanziaria, la liquidazione controllata non è più solo un’ancora per il debitore, ma un’opportunità d’azione anche per i creditori. Banche e fornitori, di fronte a insolvenze persistenti, iniziano a utilizzare con maggiore frequenza la possibilità offerta dal Codice della crisi: chiedere al tribunale l’apertura della procedura, a condizione che i debiti scaduti superino i 50.000 euro.

Uno dei casi più rilevanti è stato trattato dal Tribunale di Brescia, che ha accolto la richiesta di una banca nei confronti di una società agricola semplice con un’esposizione di oltre un milione di euro. La decisione non si è limitata all’impresa: la procedura è stata estesa ai soci, responsabili in via illimitata dei debiti contratti. È il riflesso concreto della normativa che, in presenza di forme societarie prive di autonomia patrimoniale piena, coinvolge direttamente anche il patrimonio personale.

Non si tratta solo di smantellare, però. Alcune sentenze – come quella del Tribunale di Bologna – hanno chiarito che la liquidazione controllata può anche prevedere una gestione attiva dell’impresa, attraverso l’esercizio provvisorio o l’affitto d’azienda, se questi strumenti migliorano le prospettive di soddisfacimento dei creditori.

In questo quadro, la procedura diventa un meccanismo bilanciato, che tutela il debitore senza sacrificare le ragioni di chi ha crediti legittimi da riscuotere. Per chi presta denaro o servizi al comparto agricolo, non è più solo una via di recupero, ma una garanzia di trasparenza e ordine in contesti troppo spesso gestiti con logiche informali o dilatorie.

La liquidazione controllata, così letta, assume un volto nuovo: non più solo strumento di difesa dalla crisi, ma leva operativa anche per chi la subisce indirettamente.

A cura di Antonietta Cea

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