LA SCELTA: Il consumatore l’ha già fatta. Ma il produttore?

Da tempo ormai come giornale usiamo la frase: raccontare la complessità per interpretare ciò che accade all’interno della filiera agroalimentare.
Da tempo ormai come giornale usiamo la frase: raccontare la complessità per interpretare ciò che accade all’interno della filiera agroalimentare. Una visione, la nostra, che dovrebbe essere un modus pensandi di tutti, operatori, portatori di interesse ed anche consumatori. Ogni giorno ci sforziamo di accompagnare i produttori in questa delicata fase di transizione (parola abusata come “resilienza”), divulgando un approccio nella conoscenza delle dinamiche che vanno a impattare il quotidiano lavoro nei campi, nei mercati, nei magazzini e via discorrendo. Proprio nei giorni scorsi scherzavo con mia sorella su come in agricoltura le leggi dell’economia e di tutte le scienze che orientano i comportamenti non valgano. Un esempio? Penso che anche al 1° anno di ragioneria spieghino che qualsiasi individuo che voglia creare un commercio si chieda: chi è il mio cliente e quale il bisogno che devo soddisfare? In agricoltura è il contrario: ho una terra da far fruttare cosa posso produrre, ma soprattutto QUANTO POSSO PRODURRE? La quantità, in senso figurato la massa che risponde all’atavica legge dell’accumulo, tramandata dai tempi di Caino e Abele. Noi, e mi ci metto pure io, pensiamo a produrre e molto spesso siamo spaventati dalle complesse relazioni ed inter-relazioni che intercorrono nelle dinamiche di acquisto. Provo ad elaborare un excursus molto semplice, volto a semplificare un argomento trasversale, attento a non semplificarlo troppo al fine di rendere bene la complessità di ciò che vado ad esprimere.
Parto dalla dieta mediterranea, ovvero una leva di marketing che sfruttiamo per valorizzare il nostro brand Made in Italy. Come tutte le cose, sta diventando soltanto un racconto pubblicitario e lo sappiamo tutti. Secondo un’indagine condotta da Bva Doxa per la Fondazione Edamus, il 70% degli italiani considera la Dieta Mediterranea il modello alimentare più salutare (il 93% la ritiene salutare, l’88% la definisce facile da seguire e l’87% ne riconosce il valore della stagionalità) però solo il 31% ha partecipato ad attività legate a questo stile alimentare, mentre il 51% si dichiara interessato ma non ha mai intrapreso azioni concrete. Le cause? Non balzate a conclusioni scontate: le principali barriere all’adozione quotidiana della Dieta Mediterranea non sembrano essere legate alla disponibilità degli alimenti o alla complessità delle ricette (solo il 15% trova difficili da reperire gli alimenti previsti e il 14% considera le ricette complesse), bensì i veri ostacoli risiedono nella percezione di costi elevati (31%) e nella gestione del tempo necessario per la preparazione dei pasti (13%), soprattutto tra i giovani tra i 18 e i 34 anni, dove la percezione dei costi sale al 39%.
Del fatto di come l’obesità coinvolga soprattutto i giovani ed i bambini ho già scritto in precedenza. Secondo l’ultimo Rapporto della Fondazione Aletheia “Malattie, Cibo e Salute” in Italia il 46% della popolazione versa in una condizione di sovrappeso (34%) o obesità (12%). Si tratta complessivamente di oltre 23milioni di persone di maggiore età ed il quadro non è per nulla rassicurante anche tra bambini e adolescenti. Ma vorrei anche riflettere sul “peso” (scusate il gioco di parole) che l’obesità ha sui conti economici pubblici: sono di tredici miliardi di euro all’anno i costi sanitari determinati dall’alimentazione sbagliata ed errati stili di vita in Italia secondo Sima, la Società Italiana di Medicina Ambientale. Si tratta di un impatto del 10% sulla spesa sanitaria, il che mostra chiaramente come una corretta alimentazione e una vita più sana possibile siano determinanti non solo per la salute, ma anche per le Casse dello Stato.
Molti fattori ambientali giocano un ruolo nella diffusione dell’obesità. In primo luogo, la meccanizzazione e l’automazione dei processi produttivi ha drasticamente ridotto l’energia necessaria per compiere il lavoro. Hanno un impatto notevole sull’indice di massa corporea della popolazione la mappa urbana, che promuove l’uso delle automobili, richiede lunghi spostamenti e limita le opportunità di camminare; gli spazi pubblici ristretti per fare attività fisica o all’aria aperta; la presenza pervasiva di supermercati, bar e fast food; la crescente dipendenza dai cibi pronti, spesso consumati fuori da casa.
Aumenta, infatti, il consumo di alimenti altamente ultra-trasformati tra i giovani, in particolare nella fascia d’età compresa tra i 5 e i 30 anni. Si tratta di prodotti come merendine, bevande gassate, snack salati che contengono nella maggior parte dei casi una molteplicità di additivi chimici come coloranti, dolcificanti artificiali e molto altro. Questi additivi seppur considerati sicuri non sono di certo salubri per la salute, soprattutto a causa del cosiddetto eXetto cocktail, ovvero la loro assimilazione ripetuta durante la giornata. Un fenomeno che, di fatto, sta compromettendo la diffusione di modelli nutrizionali sani.
Gli ultraprocessati, oltre a subire molteplici lavorazioni si compongono di sostanze solitamente non utilizzate in cucina, come maltodestrine, proteine idrolizzate o grassi idrogenati, e contengono generalmente numerosi additivi quali: coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti. Rientrano nella categoria, ad esempio, molti piatti pronti e surgelati, le bevande gassate e zuccherate, molti dei prodotti da forno preconfezionati, le creme spalmabili, snack confezionati dolci o salati etc. Il consumo di questi alimenti rappresenta oggi il 60% circa delle calorie consumate dagli adulti negli Stati Uniti e il 70% negli adolescenti ma è in continuo aumento anche negli altri Paesi, come l’Italia, dove il consumo medio rappresenta circa il 14% delle calorie giornaliere assunte dagli adulti ed un quarto di quelle assunte da bambini e adolescenti, come dimostrato da un recente studio italiano.
Perchè si fa ricorso a questi cibi? Centra anche un fattore economico, oltre che il cambiamento degli stili di vita e del rapporto vita/lavoro. A causa della perdita del potere di acquisto più di un italiano su due, per un dato pari al 52%, ha tagliato il cibo a tavola in quantità o in qualità, con un effetto dirompente che grava soprattutto sulle famiglie a basso reddito a causa del caro prezzi. Si mangia meno carne, meno frutta e verdura e meno pesce, guarda caso i prodotti a base della piramide alimentare della dieta Mediterranea. Tuttavia combattiamo in Italia la battaglia contro lo spreco alimentare ch rappresenta un problema significativo, con un costo stimato di oltre 15 miliardi di euro ogni anno. Questo valore è pari allo 0,88% del PIL italiano e include sia lo spreco domestico che quello lungo la filiera alimentare. In media, ogni famiglia italiana spreca circa 300 euro di cibo all’anno.
Come vedete la situazione è talmente grave (oltre che complessa) che per la prima volta anche la Gdo è costretta a (ri)pensare il suo modello di business di fronte ai consumi stagnanti ed alla crisi. Secondo i dati pubblicati dall’Istat, a marzo le vendite al dettaglio registrano una flessione significativa, con un calo del 2,8% in valore e del 4,2% in volume rispetto a marzo 2024. Il comparto alimentare, guarda caso, è il più colpito, con una riduzione del 4,2% in valore e del 6,7% in volume, mentre i beni non alimentari mostrano una flessione più contenuta (-1,4% in valore e -2,1% in volume). Parlavo di un cambiamento di logica della Gdo. Leggete le parole di un insider come Gasbarrino (Gruppo Decò): “Se arrivano a chiudere punti vendita aperti anche di recente vuol dire che nel retail vale sempre la regola: location, location, location. Con la forza della location che varia a seconda di quello che ci metti. Ma se guardiamo ai portafogli della maggior parte delle aziende della GDO italiana non esagero se dico che ci sarebbero almeno 3mila punti vendita da chiudere. E ritardare queste decisioni, continuando a nascondere la polvere sotto il tappeto non aiuta. Bisogna scegliere anche se, come disse un mio vecchio capo, scegliere è difficile perché vuol dire rinunciare a qualcosa”. Scegliere. Una parola sicuramente suggestiva. Scegliere è ciò che fa il consumatore. Ma quando lo farà anche il produttore?
Editoriale di Donato Fanelli