La Burocrazia è la vera zavorra della transizione green

Si parla sempre più della sfida alla sostenibilità, ma in pochi ci si domandano: chi la sta “pagando”? I cittadini o le imprese. Entrambi, verrebbe da dire. Ma c’è da aggiungere: tuttavia il peso di questo dazio lo stanno scontando soprattutto le aziende, in primis quelle agricole e dell’industria alimentare. 

Agronetwork – l’associazione di promozione dell’agroindustria costituita da Confagricoltura, Nomisma e LUISS – a fine anno aveva presentato i risultati delle interviste realizzate da Format Research su un campione di oltre 1.600 tra imprese agricole e piccole e medie aziende dell’industria alimentare. Al centro dell’indagine l’attenzione per la sostenibilità e le difficoltà che devono affrontare le imprese del settore per coniugare sostenibilità ambientale e sostenibilità economica. Essere sostenibili, infatti, ha un costo elevato e richiede competenze specifiche.

Difficoltà per costi rilevanti – Il 45,2% delle imprese intervistate ha dichiarato di non aver effettuato negli ultimi 5 anni alcun investimento per favorire la propria sostenibilità ambientale, il 54,8% invece lo ha fatto ma ha incontrato molte difficoltà, soprattutto nel corso del 2022 a causa dell’aumento dei costi energetici e della carenza di materie prime.

I costi rilevanti (45,8%), un quadro normativo troppo complesso (24,5%), la difficoltà di implementazione di azioni sostenibili (21,8%), la mancanza di competenze (20,1%), sono le principali ragioni per cui molte imprese hanno rinunciato ad investimenti a favore della sostenibilità ambientale. Di queste, tuttavia, il 55% afferma che probabilmente (42,4%) o certamente (12,2) lo farà nel prossimo futuro.

Green transition – Tra le imprese che invece hanno scelto di investire nella sostenibilità (54,8%) ben il 75% hanno riscontrato difficoltà nella “green transition”. Il peso della burocrazia è al primo posto tra gli impedimenti per il 33% degli intervistati, seguito dalla mancanza di budget (27,1%), dall’impennata dei costi nel corso del 2022 (26%), dalla complessità delle norme (19,1%) e dalla mancanza di risorse qualificate (11,7%). Il preoccupante scenario internazionale, al quale corrisponde un abnorme aumento dei costi, costringerà almeno nei primi sei mesi del 2023 il 41,4 % delle imprese intervistate ad operare con difficoltà, se non con molte difficoltà (26,6%).

Il 3,5% si sono dette addirittura costrette a chiudere l’attività. A testimonianza di quanto la sostenibilità ambientale sia inevitabilmente legata a quella economica occorre sottolineare un dato allarmante: il 53% delle aziende aveva pianificato investimenti nei primi sei mesi del 2023.

Tuttavia, di queste meno del 60% li effettuerà regolarmente, mentre il 24,2% rinuncerà in tutto o in grande parte ad essi. Il 18% ha invece dichiarato che rinuncerà ad altri investimenti, ma non a quelli sulla sostenibilità ambientale.

Lo Stato dovrebbe aiutare le imprese nella in termini di costi per la sostenibilità – Tra le imprese che investono nella sostenibilità ambientale l’87% ritiene che sia lo Stato a doversi fare carico delle difficoltà, in termini di costi, che le imprese devono affrontare. In particolar modo le attività richieste per uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale riguardano: incentivi pubblici a sostegno delle imprese 54,3%, detrazioni fiscali o semplificazioni amministrative per le imprese virtuose 46,9%, incentivi per i progetti di reti di imprese per la sostenibilità delle filiere 29,4%, incentivi pubblici per collaborazioni con Università ed enti di ricerca 26,7%, campagne di comunicazione per sensibilizzare consumatori e imprese 21,1%. Gli enti e le Istituzioni nazionali, locali e comunitari insieme alle Università e gli Istituti di ricerca – affermano inoltre gli intervistati – rivestono un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’adozione di policy di sostenibilità ambientale.

 Il peso della lentezza della PA – Secondo il policy paper “La semplificazione amministrativa – Come migliorare il rapporto tra PA e imprese” , pubblicato da Deloitte, tutte le regioni italiane presentano livelli di efficienza della Pubblica Amministrazione inferiori al livello medio dei Paesi dell’Unione Europea, con criticità molto accentuate al Sud. Nelle regioni del Mezzogiorno, infatti, il peso della burocrazia sottrae fino a 100 giorni all’anno al lavoro in azienda e le inefficienze generate dalla PA frenano l’avvio di nuove attività di impresa. L’amministrazione pubblica italiana è poco efficiente perché troppo frammentata: la PA conta in totale circa 10.500 istituzioni, molte delle quali diverse tra loro nelle modalità operative e con competenze che spesso tendono ad accavallarsi. Infatti, solo l’1,7% degli organi burocratici è centralizzato, mentre il rimanente circa 98% è sparpagliato in organi locali. Il risultato è un eccesso di norme e soggetti regolatori che rende difficile la vita alle imprese. Un vero e proprio labirinto amministrativo che costringerebbe ogni impresa a spendere fino a 1200 ore in iter amministrativi e comporterebbe un costo annuale della burocrazia per oltre 57 miliardi di euro. 

Pochi giovani – Il personale della Pubblica Amministrazione italiana annovera tra i propri collaboratori solo il 2,2% di giovani contro il 30% di quella tedesca e il circa 21% della francese: una caratteristica che comporta una fisiologica mancanza di profili con competenze aggiornate. Inoltre, da un’analisi sui circa 3 milioni di dipendenti pubblici italiani emerge che la distribuzione in termini di anzianità di servizio ed età descrive una macchina amministrativa che necessità di un ricambio generazionale soprattutto per quanto riguarda le istituzioni che esercitano funzioni centrali: l’età media dei dipendenti pubblici di queste unità, infatti, è di circa 55 anni. 

Poco digitale – Non esiste una vera mappatura delle competenze digitali del personale dell’apparato pubblico italiano. Ma la mancanza di digital skills nella PA è inevitabilmente legata al basso numero di giovani impiegati. Inoltre, circa il 60% dei dipendenti non è in possesso di laurea: un dato che, insieme alle caratteristiche anagrafiche dei dipendenti pubblici, contribuisce a spiegare il basso livelli di competenze digitali posseduto. 

Anche per le imprese serve un cambio di passo – Se è vero che la PA deve essere riformata, anche sul fronte delle imprese c’è molto da fare. Circa il 95% delle attività italiane sono microimprese: una caratteristica che frena gli investimenti in innovazione e digitalizzazione. Inoltre i manager aziendali italiani tendono a essere più anziani della media: il 54% ha superato i 60 anni e il 28% è over 70. Nella classifica del DESI Index 2020, che misura la competitività digitale dei Paesi Ue, l’Italia si colloca ben al di sotto della media comunitaria: al 22° posto su 28. Così, solo il 10% delle nostre aziende a oggi si è costruita una presenza on-line ed è in grado di competere sul fronte della digitalizzazione.

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