Investo dunque sono… oppure muoio.
Forse sarà (l’ennesima) provocazione, ma voglio chiedermi: basta investire per creare il successo duraturo di un’azienda agricola? Oggi consulenti, tecnici, ricercatori ci dicono che il mondo sta cambiando e noi agricoltori dobbiamo cacciare i soldi per stargli al passo. Giusto, giustissimo. Però mi chiedo se chi investe sa dove vuole andare, sa che tipo di “anima” infondere alla propria azienda. In parole povere parlo di una visione, di un saper non solo immaginare il futuro, ma di saperlo creare. Perché oggi siamo al giro di boa: ci stanno lasciando uno a uno gli imprenditori che hanno fatto la storia (nel bene e nel male) del nostro comparto. Io la chiamo la generazione di ferro, ovvero coloro che hanno saputo porre le basi di una agricoltura imprenditoriale, basata sulle performance economiche. Coloro i quali senza formazione, lauree, master o corsi di formazione hanno creato il mercato e non lo hanno subìto! La generazione che ha fatto da collante tra gli avi che tramandavano il valore della terra e i figli ai quali inculcare l’idea che quella terra è più di una rendita economica, è storia familiare, è sangue e sudore di chi ti ha preceduto nel camminare in quei filari. Ci stanno lasciando coloro che tra mille difficoltà non hanno fatto mancare mai nulla alle proprie famiglie ed hanno creato un indotto, allargando molto spesso il concetto di famiglia anche a coloro che lavoravano con loro gomito a gomito per 2/3 della giornata. Imprenditori con la A maiuscola, ma con le mani callose ed i volti scavati dalle rughe con la pelle annerita dal sole. Gente di fatica, ma che ha vissuto con la schiena dritta perché per loro contavano due cose: la dignità e la parola. Guai a perdere la prima ed a tradire la seconda. Noi siamo figli di quella generazione lì, ma siamo la generazione di cristallo. Quella che ha studiato, si è formata. Che crede nell’innovazione, nella digitalizzazione, nella multifunzionalità. Quella che forse sta tradendo i principi piegandosi troppo al mercato ed alle mode. Perché oggi non si va in campagna per produrre, ma finanche per fare delle “experience”. Si adottano alberi a distanza e gli “agricoltori-per-una-settimana” percorrono mille chilometri per “farsi” il proprio raccolto. Tutto bello, anzi tutto figo…ma poi? Quando l’azienda va sotto stress sappiamo reagire? Sappiamo pagare fornitori ed operai quando siamo in affanno col prezzo del raccolto? Sappiamo pagare i rivenditori senza fare debiti su debiti? E’ in quei momenti che dobbiamo dimostrare che la storia di chi ci ha preceduto si può portare avanti, ma serve coraggio e fede. Già, la fede di credere in quella visione che ci siamo dati. Perché non basta investire per uscire fuori dal pantano. Occorre capire ed alle volte immaginare i problemi cui ci troveremo di fronte, pensandoli come una tappa scontata di un percorso. In un documentario che guardavo con mio figlio dedicato al basket un ex giocatore diceva che la pallacanestro è fatta per il 20% di tecnica e l’80% di capacità di affrontare e superare lo stress. Precisava che il vero campione non lo vedi quando si è soli in palestra ad esercitarsi con una media al tiro del 90%, ma quando mancano 10 secondi alla sirena e hai la palla del controsorpasso. E’ lì che la testa deve reggere l’urto. E’ un mix tra motivazione, determinazione e talento. E’ saper concretizzare la visione: è saper attualizzare il momento che abbiamo immaginato quando siamo scesi in campo. Nella vita come nel gioco bisogna saper dare prove di forza. La nostra agricoltura ha bisogno di questo. Non serve solo la teoria, serve la pratica. Serve fatica e sudore, la nostra agricoltura ha bisogno di questo, per dare il giusto tributo a chi ci ha insegnato e dato tutto e per continuare ad avere un futuro.
Editoriale a cura dell’editore Donato Fanelli