Editoriale | Uva da tavola, non è più tempo di improvvisazione

La verità ce la dobbiamo dire tutta, però: ci sono ancora agricoltori e commercianti che non sono veri imprenditori

Differenza tra quotazioni per i produttori e prezzi di vendita al dettaglio. La questione sta tutta qui.

Quelli bravi parlerebbero di delta tra costo di produzione e politiche di prezzi applicate dalla distribuzione, piccola o grande che sia. O rappresenterebbero le criticità di una filiera che non riesce ad essere equa nella distribuzione del valore tra gli operatori.

Quelli bravi bravi parlerebbero di valore e plus valore. Ma tant’è, a noi piace essere terra terra e parliamo dei problemi di tutta la filiera. Certo, perché se c’è un punto di debolezza in un comparto non si può giocare al gioco del rimpiattino o dell’ “è colpa tua”! Assolutamente, come sempre diciamo dietro le semplificazioni estreme si nascondono errori (interpretativi) pericolosi.

Partiamo dall’ovvio: la filiera dell’uva da tavola non riesce più a remunerare col giusto prezzo gli imprenditori agricoli. Dall’altra cerca di promuovere il prodotto con campagne di comunicazione ed iniziative che lo valorizzino nelle sue peculiarità: tipicità e gusto.

La cronaca, e anche Foglie “sta sul pezzo” riporta di proteste di agricoltori riunitosi per sensibilizzare opinione pubblica ed istituzioni sull’esistenza di un problema di “sostenibilità economica” delle aziende stesse.

A fare scalpore è stata proprio la tempistica, ovvero la concomitanza con le iniziative di promozione di un evento dedicato. E ciò, sicuramente, ha sortito l’effetto di farsi ascoltare subito e meglio da parte delle istituzioni con l’Assessore Pentassuglia, la cui sensibilità verso il comparto agricolo si sta dimostrando importante, che ha annunciato interventi immediati per dare ristoro ai produttori. Ciò va bene, anzi benissimo. Ma il vulnus della filiera sta in altro. Parliamo di una legge sulle pratiche sleali che non funziona: non ci sono controlli. Parliamo di speculazioni commerciali. Ma, e lo voglio fare con coscienza, obiettività e trasparenza, dobbiamo parlare anche di un segmento di produzione ancorata a vecchi retaggi. Prodotti che il mercato stenta ad assorbire, se proprio non vuole in alcuni contesti extra-UE.

I produttori devono capire una volta per tutte che se vogliono fare gli imprenditori agricoli, devono iniziare a mettere l’accento su quell’ “imprenditore”. La qualità non si fa con le chiacchiere, col solito “l’uva è mia è la più buona”. Servono piani di sviluppo aziendali che parlino di investimenti, di innovazione varietale, di qualità delle produzioni certificata in campo con tecnologie digitali che ormai non sono neanche più sperimentali, sono l’ovvio per chi vuole guardare a comunità di consumatori esigenti.

Così come esistono imprese commerciali che non si sono dotate di un ufficio marketing capace di trarre inferenze dalle dinamiche del mercato, capace cioè di gestire quella mole di dati che report sempre più complessi sono in grado di fornire. Ma serve una strategia commerciale che sia ancorata a politiche promozionali e pubblicitarie studiate a tavolino e pensate con un impatto a medio-lungo termine. Ogni anello del comparto ha una sua responsabilità. Partiamo da questo assunto se non vogliamo prenderci in giro e vogliamo iniziare a intavolare una discussione seria. 

Editoriale a cura di Donato Fanelli

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