E ci scoprimmo gastrodiplomatici…ma uniti
La chiamano “gastrodiplomazia”. I media europei stanno iniziando a bollare in questo modo la posizione italiana sui principali dossier aperti (leggasi nutriscore, carne sintetica, imballaggi ed alert sanitari in etichetta), rappresentandola senza tanti giri di parole come una spinta conservatrice, rea di un atteggiamento fortemente critico e finanche violento rispetto alle posizioni di gran parte dei paesi europei che starebbero isolando il nostro.
E il fatto che ci sia al Governo uno schieramento a trazione destrorsa, per i tanti osservatori esteri non pregiuca una forte convergenza sui temi di una strenua difesa del Made in Italy da parte di tutti i livelli istituzionali e di tutte le organizzazioni che portano avanti le istanze e gli interessi delle diverse filiere agroalimentari. Per la serie: non sono solo i sovranisti ad alzare i toni dello scontro, ma è tutto il sistema.
E questa verità sicuramente inoppugnabile come viene interpretata, quindi? Come un rigurgito conservatore di un paese che non vuole prendere sul serio le sfide della contemporaneità cui è chiamato. Un amarcord nostalgico che ci riporterebbe ai tempi bucolici di quel piccolo mondo antico di matrice agreste. Una tesi avvalorata anche da personalità italiane che vanno contro-corrente, avverse, a detta loro, a quel pensiero dominante (sic!) che si sta affermando nel Bel Paese.
In questo solco si adagiano posizioni di storici ed esperti ai “vari-ed-eventuali” che asseriscono che la Dieta Mediterranea non esiste, che c’è un Made in Italy fake, che in Italia non si produce più e che “sotto il marchio non c’è niente”!
Beh allora se si tratta di difendere il Made in Italy per venire bollato come conservatore, allora dovrei essere annoverato in questa nutrita schiera.
Tuttavia io parto (come sempre) da una domanda: si può essere conservatori senza essere reazionari? Una asserzione che potrebbe ispirare ampio e copioso (noioso anche) dibattito, ma che ha una sua centralità nella riflessione che vado ad argomentare. Semplificando al massimo si potrebbe sintetizzare la differenza reazionari/conservatore tra un atteggiamento che chiude la strada al nuovo, e l’altro che si apre mantenendo dei paletti.
Leggendo un articolo di Lorenzo Castellani possiamo dire che “Chi vuole conservare sa di non poter fermare l’avanzare delle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali – altrimenti sarebbe soltanto un reazionario – ma in questo processo vuole preservare alcuni punti cardinali sui quali si pensa e si muove l’umano”.
Ed è proprio questo che ispira la mia posizione: si può perseguire la strada del progresso attraverso una regolamentazione chiara? Normare deve essere il verbo. E qui vado a dissipare ogni dubbio a tutti coloro i quali affermano che un conservatore cerca l’accentramento del potere nell’autorità a discapito di un’affermazione piena della libertà.
E traslando questo concetto al campo economico: opterebbe per un contrasto al liberismo ed alla globalizzazione dei mercati. Un impasse da cui si può uscire soltanto posizionando l’autorità al centro della dicotomia libertà/potere. Senza un’autorità che regola c’è l’estremismo libertario (la libertà è potere) e quello autoritario (il potere è libertà).
L’autorità è il centro intermedio che equilibra le due correnti. Ritornando al campo economico: il progresso senza freni porta ad un eccessivo potere di chi ha denaro o ad un accumulo di denaro in chi ha potere. L’autorità equilibra le posizioni.
E’ bene ribadirlo in quest’era pervasa dall’illusione di individualità, ovvero di chi “Crede di esprimere l’unicità del proprio essere e la fermezza della propria volontà, ma invece è tirato da ogni parte da mode, istinti mimetici, dinamiche di gruppo, pressioni sociali. È confortato dalla sua bolla mediatica che amplifica ciò che sa già, è bersagliato da algoritmi che gli suggeriscono cosa desiderare, ignora beatamente l’esistenza di eserciti di studiosi del comportamento, esperti di marketing e sofisticati algoritmi che gli dànno spinte più o meno gentili verso scelte nel proprio interesse”.
In Italia, quindi, c’è un atteggiamento responsabile bi-partisan che intende tutelare a spada tratta il nostro sistema agroalimentare, smascherando le lobbies che ci sono dietro. Perchè è chiaro che dietro il green-washing si sta combattendo una battaglia di competitività economica che tocca anche la geopolitica. Perchè ormai la complessità del mondo l’abbiamo capita pure noi agricoltori. Non siamo poi tanto uomini con l’anello al naso, lo capiamo da noi che l’attacco alla zootecnia italiana viene portato avanti da fondi che hanno un giro di affari quanto il PIL di una nazione europea. Così come capiamo anche che molto spesso veniamo strumentalizzati da chi dovrebbe difendere i nostri interessi ma è attento a fare business, forse anche più di una SPAe quanto una banca (ultimo step di una evoluzione ormai naturale).
Ma ciò non ci vieta di aspirare ad un progresso normato, regolemantato, equilibrato. Per questo continuiamo a fare squadra. Non solo perchè troviamo una convergenza di interessi, ma perchè il cambiamento siamo i primi a volerlo, purchè porti ad un miglioramento di tutti e non solo di chi c’ha i soldi o il potere (che molto spesso combaciano, anzi sono uni e trini perchè poi c’hanno pure il coraggio di stare in mezzo a noi!).
Ben venga quindi la gastrodiplomazia, uniti possiamo andare a rompere equilibri già (pre)impostati. Ma lo slogan fatecelo scegliere a noi “Europa, non fare il frocio col culo degli altri !”. Beh, così mi hanno capito tutti.
Editoriale a cura di Donato Fanelli