Caro ministro della sovranità alimentare, da che filiera partiamo?
Beh, adesso si passi dai proclami ai fatti. Il Ministero della Sovranità Alimentare oltre a rifare le carte intestate oggi deve dimostrare che il cambio di denominazione sottintende una visione strategica diversa con cui operare per rendere competitivo il sistema agroalimentare italiano.
Diciamo che Lollobrigida avrà il suo bel da fare, avendo preso le redini del Ministero quando l’Irlanda ha deciso di andarsene per conto suo nell’obbligo di indicare in etichetta che il vino, come le altre bevande alcoliche, nuoce alla salute come un sigaro qualunque.
Nel mentre l’era della transizione green (forse più schizofrenica di quella del cinghiale bianco) ha imposto un drastico taglio dei fitofarmaci, così d’amblée, dall’oggi al domani diremmo noi. E per farci mancare nulla: cambiamenti climatici che stanno cambiando in modo irreversibile la geografia colturale di tutta la nazione, la Xylella che avanza, una guerra che rende il presente incerto (più che il futuro) e che impone fantasia nell’approvvigionamento dei fertilizzanti.
Il clima pazzo, con il moltiplicarsi degli eventi estremi, ha provocato danni in agricoltura che nel 2022 superano già i 6 miliardi di euro, pari al 10% della produzione nazionale.
Roba da poco insomma che ci fa sorridere di quando ci preoccupavamo con gli export manager delle sanzioni di Trump o dei pericoli della Brexit.
Ordunque signor Ministro, da dove iniziamo?
Partiamo forte, si regga: filiera dell’olio! Nel rapporto dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), realizzato in collaborazione con Italia Olivicola e Unaprol, si stima un calo del 37% nella produzione nazionale. Con una riduzione di 120 mila tonnellate di olio di oliva, l’Italia scende in Terza posizione nella classifica dei maggiori produttori dietro la Grecia.
Per la Puglia che da sola rappresenta il 50% della produzione nazionale Ismea ha stimato una produzione più che dimezzata (-52%), in un contesto negativo anche per la Sicilia (-25%), Calabria (-42%) e, più in generale, per l’intero Meridione.
Facciamo un altro tentativo. Si stima che la produzione di grano duro in Italia sarà pari a 3,8 milioni di tonnellate in calo del 5% nonostante l’aumento delle superfici coltivate che sono passate a 1,24 milioni di ettari nel 2022 contro 1,23 milioni del 2021 per una strategica filiera nazionale della pasta che coinvolge 200mila aziende agricole italiane. Non se la passano meglio il comparto delle pere (al minimo storico da tre anni), carote e fragole in serra. Anche un settore fiore all’occhiello della nostra agricoltura, la melicoltura, sta soffrendo la concorrenza dei paesi dell’EST, sempre più presenti nei segmenti di mercato italiani per via del blocco con la Russia.
E’ la concorrenza il vero nocciolo della questione. Perché fuori dall’Europa non vigono le stesse regole, gli stessi disciplinari e non hanno la spada di Damocle che pende sui nostri produttori. Si dica a Bruxelles che non è solo un problema di rese (importantissimo in termini di redditività e competitività), ma è un problema di difesa delle colture e di salubrità di ciò che mangiamo.
La riduzione dei raccolti nazionali non comporta solo danni economici per gli agricoltori, ma anche il rischio per i consumatori che prodotti di importazione siano spacciati per italiani finiscano nel carrello. La drastica riduzione delle rese aumenterebbe, infatti, l’import da Paesi terzi di prodotti trattati con le stesse sostanze, innescando distorsione della concorrenza.
Dunque il primo passo nella difesa della sovranità alimentare non è quello di boicottare le politiche europee sulla drastica riduzione dei fertilizzanti, ma di innescare un virtuoso percorso di riflessione su queste politiche che porti a rivedere in maniera pratica e concreta questo testo sacro dei divieti.
Va da sè che la cancellazione di alcune filiere comporterebbe anche l’abbandono di intere aree rurali, con pesanti ricadute sull’indotto. Meno raccolto non significa solo minore redditività. Significa essere tagliati fuori. Significa buttare a mare decenni di investimenti per acquisire quote di mercato col sangue e coi sacrifici. E non dimentichiamoci quanto stanno pagando i produttori ed i trasformatori in questo inizio decennio quantomai
sfortunato, in uno scenario difficile sul quale pesa la crisi energetica con più di una azienda agricola su dieci (13%) a rischio di chiusura secondo il Crea.
Il settore ha infatti affrontato rincari determinati dall’energia che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio nelle campagne mentre il vetro costa oltre il 30% in più rispetto allo scorso anno, ma si registra anche un incremento del 35% per le etichette, del 45% per il cartone, del 60% per i barattoli di banda stagnata, fino ad arrivare al 70% per la plastica.
Dunque Ministro che famo? Apparecchiamo?