Agricoltura senza agronomi: CUCINA SENZA CUOCO, PASTA SENZA SALE

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Cucina senza cuoco, pasta senza sale. Meglio di così non posso sintetizzare un concetto: senza gli agronomi possiamo immaginare un’agricoltura sempre più moderna? Come possiamo affrontare le sfide imposte da cambiamenti climatici, eventi atmosferici estremi, scarsità di risorse naturali, fitopatie e batteriosi, insetti alieni, ma anche mancanza di manodopera, impoverimento dei suoli, fino alla tutela e valorizzazione del patrimonio di biodiversità e innovazioni varietali? I temi, a metterli in fila, non ci vuole niente. Ma chi è il professionista deputato a mettere ordine tra la mole di dati, informazioni, che aprono scenari ed opportunità molteplici?

Chi è il professionista che analizza il contesto, riflette ed elabora una strategia utile per supportare l’imprenditore agricolo nella scelta di decisioni che, oggi più di ieri, sono vitali per il presente, e non per il futuro, dell’azienda? Il dottore agronomo o forestale o gli agrotecnici ed agrotecnici laureati. Sulla carta dovrebbero essere loro. Già sulla carta, intesa in senso figurato come laurea.

Perchè nell’Italia dei paradossi aumentano gli iscritti ed i laureati nei corsi che afferiscono alle Facoltà di Scienze Agrarie e Forestali ma, di fatti, cala quello di chi esercita la professione e vive da essa: a fronte di 20mila agronomi in tutta Italia solo 9mila sono iscritti alle Casse previdenziali e vengono quindi definiti “attivi” nell’esercizio della professione. Un dato assurdo se pensiamo che risultano iscritte alle casse di competenza oltre 200mila avvocati, 100mila farmacisti e 90mila psicologi. Un parodosso se rapportato al valore dell’agricoltura nel sistema economico non solo italiano, bensì europeo.

Nel 2019 l’Italia ha conquistato il primo posto della classifica europea dell’agricoltura superando, ancora una volta la Francia, la Spagna e la Germania: nel nostro paese è stato generato quasi un quinto del valore aggiunto dell’intero sistema agricolo della Ue; infatti, su un totale stimato pari a 188,7 miliardi di euro nel 2019, il nostro Paese ha contribuito per il 16,8%, la Francia per il 16,6%, la Spagna per il 14,1% e la Germania per l’11,2%.

Un valore economico importante se pensiamo alla percentuale di superficie agricola utilizzata. Nel 2013 in Italia si sono contate 1.010.300 aziende agricole (siamo il terzo paese dopo Romania e Polonia), cioè il 10% del totale delle imprese, ma la superficie agricola utilizzata in Italia è solo il 7% di quella europea. Nel complesso il nostro paese è il quarto per produzione agricola: rappresentiamo infatti il 12% (dato 2013) del totale dell’Unione Europea. Avanti a noi solo la Francia con il 17% e la Germania (13%).

Performance che le nostre aziende agricole rag- giungono nonostante limiti strutturali, come la frammentazione e la scarsa aggregazione. Ma una criticità ancora più grande è l’accesso al credito ed ai finanziamenti europei. Un altro dato importante ci dice, infatti, che, il valore aggiunto creato nel nostro paese da produzioni rilevanti per quantità e qualità è stato ottenuto con un sostegno limitato di sussidi.

Considerando gli importi assoluti, nella classifica dei Paesi che nel 2019 hanno ricevuto i mag- giori contributi all’agricoltura (sia nazionali sia europei) al primo posto figura la Francia con 7,9 miliardi, seguita da Germania (6,9 miliardi) e Spagna (5,6 miliardi). Per l’Italia, i contributi alla produzione sono stati pari a 5 miliardi. In termini di valore della produzione la leadership, invece, spetta alla Francia con 75,7 miliardi seguita dalla Germania con 56,8 miliardi e l’Italia sul terzo gradino del podio con 56,6 miliardi. Per l’intera Ue, il valore totale raggiunge i 443 miliardi di euro.

Sono questi i numeri che dimostrano come sia in- dispensabile rendere più solido l’anello produttivo, ormai stretto tra la morsa delle aziende di trasformazione che stanno imponendo una nuova mezzadria ed i fondi di investimento che speculano sulla pelle di chi produce. E se nel gioco della geopolitica l’agricoltura è merce di scambio all’interno di conflitti e… conflitti di interesse grandi quanto una casa.

La conseguenza è che la complessità di questo settore sta allontanando i giovani, sia dall’impegno nella conduzione di una azienda sia nell’attività di consulenza, percepita come precaria e, di per sè, fragile. Partiamo da qui perchè già la pasta è poca, se poi la cuociamo senza sale…allora è un guaio.

Editoriale a cura di Donato Fanelli

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